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Gaza, Ucraina,... Viviamo nel timore che le guerre degli altri diventino le nostre

Una folla di persone provenienti da Jabalia, nel nord della striscia di Gaza, si reca a ritirare gli aiuti umanitari il 29 Luglio - Foto di Omar Ashtawy da Instagram

Alla cultura del dialogo si è sostituita quella della forza, e i conflitti si estendono invece di contrarsi

La situazione umanitaria di Gaza interpella le coscienze. Che fare per i palestinesi intrappolati fra le bombe e i missili e sotto il controllo ferreo di Hamas? Si moltiplicano annunci di tregue, poi rifiutati o smentiti. Grande è l'angoscia della popolazione, che soffre la fame e un dramma umanitario. Del resto, anche in Ucraina, nonostante il tavolo negoziale di Istanbul non sia chiuso, non si avanza. Il presidente Trump, partito da un grande ottimismo, forte del rapporto con Putin, si mostra pessimista sulla situazione. Che può fare la politica internazionale? 

Siamo in una stagione in cui la diplomazia è in crisi. La nostra è l'età della forza. La diplomazia, tanto antica, che si è sviluppata nel Rinascimento, si basa sulla cultura del dialogo. Mira alla pace, all'accordo, alla mediazione, al compromesso in modi e forme delle differenti stagioni storiche. Si diceva: «La diplomazia cessa quando la guerra comincia». I decenni trascorsi hanno conosciuto stagioni ibride in cui diplomazia e guerra s'intrecciavano. Oggi - ha ben detto Leone XIV - domina la "legge della forza". 

Jean Monnet, parlando del valore dell'Europa unita (ne è stato uno dei costruttori) dopo il dramma della Seconda guerra mondiale, disse: «Meglio litigare attorno a un tavolo che sul campo di battaglia». Con la nascita delle Nazioni Unite e poi delle istituzioni collegate, la diplomazia ha trovato spazi d'azione nella prospettiva multilaterale. Nell'attuale quadro internazionale, però, l'Onu vive una fase di discredito, messa ai margini dalle crisi, nonostante il ruolo positivo svolto in varie situazioni di guerra. 

La realtà è che, nella stagione della forza, in cui sembra che le armi siano quasi l'unico presidio di sicurezza, la fiducia nel dialogo è in buona parte svanita. Papa Francesco, nel 2014, constatò amaramente: «Il mondo soffoca senza dialogo». E dieci anni dopo la situazione è non solo soffocante, ma pericolosa. Infatti, come abbiamo più volte affermato, si rischia l'allargamento della guerra. 

Le guerre degli "altri" possono diventare le nostre, infiammando rapidamente il mondo. E non si pone fine ai conflitti in corso che durano crudelmente nel tempo. 

La cultura in questa età della forza è così cambiata che la pace non è più un obbiettivo. Penso alla terribile situazione in Sudan, in cui le due parti in lotta non si pongono il problema di intavolare negoziati. 

Del resto ci sono migliaia e migliaia di uomini che vivono facendo la guerra: eserciti privati, movimenti jihadisti, reti del crimine. L'unica alternativa alle tante guerre è il dialogo. Non è ingenuo, ma realista. Vuol dire riprendere in mano le sorti della storia e non abbandonarle all'ingranaggio della guerra. Bisogna investire molto di più sulla diplomazia, che non significa solo colloqui tra i leader apicali degli Stati (o le telefonate), fatti spesso con pubblicità. C'è bisogno di una tessitura riservata e costante a vari livelli degli Stati, mentre vanno cercate possibili vie d'uscita. 

La rete del dialogo è lacerata: va rammendata con pazienza, evitando i cortocircuiti bellicosi degli scontri, anche verbali, davanti al pubblico, prevenendo conflitti e prospettando vie d'uscita. Con chiarezza, nel 1970, Paolo VI così definiva la funzione della diplomazia: «Contribuire a rendere più stretti i legami tra le nazioni, in una leale reciprocità».


Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 20/7/2025

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