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Foto Sant'Egidio |
L'integrazione di chi vive e lavora nel nostro Paese genera benefici sociali, economici e demografici
Il quinto quesito del prossimo referendum propone di dimezzare da dieci a cinque anni i tempi di residenza legale in Italia per ottenere la cittadinanza italiana per lo straniero extracomunitario. Sono favorevole a una risposta positiva.
Bisogna rimettere in discussione una politica che scoraggia la concessione della cittadinanza ai cittadini non Ue. Tale politica corrisponde a una visione, anzi a una "non visione": la diffidenza verso i non italiani che vengono nel nostro Paese, vivono qui, lavorano, pagano le tasse, contribuiscono al comune benessere.
Questa diffidenza ispira le lungaggini burocratiche che ritardano le pratiche per la cittadinanza anche per chi ne ha diritto. Soprattutto manifesta il disinteresse a integrare gente che già vive in Italia e di cui la nostra economia ha bisogno, come segnalano, inascoltati, tanti imprenditori. Le imprese a rischio di non poter realizzare il ricambio generazionale - segnala l'ultimo rapporto annuale Istat - sono più del 30%. Intanto l'Italia si conferma uno dei Paesi più vecchi al mondo (età media 48,8 anni), mentre le nascite continuano a diminuire.
Perché tanta resistenza all'integrazione piena che viene anche dalla concessione della cittadinanza? È un modo di sentire vecchio, di chi resta aggrappato al proprio presente e non guarda il futuro. C'è una diffidenza che nasce dalla paura dell'"invasione" di un mondo straniero. Ma quel mondo c'è già e non è più così straniero. L'immigrazione non è un fenomeno nuovo, ma ormai più che trentennale. I bambini non italiani studiano e crescono a scuola con i nostri.
È stata una grave responsabilità della scorsa legislatura (e di questa) non concedere la cittadinanza in base allo ius culturae (qualcuno lo ha chiamato ius scholae): in base al riconoscimento dell'educazione italiana (lingua e cultura) impartita ai ragazzi, cresciuti come italiani e tra i ragazzi italiani, ma non ancora dichiarati tali. Dietro a tanta resistenza c'è una visione solo securitaria della gestione degli immigrati. Ma la sicurezza più vera è l'integrazione.
Votando a favore del quinto quesito del referendum, si afferma una visione diversa del futuro. Chi risiede e lavora nel nostro Paese sia chiamato a partecipare alla vita sociale e pubblica, con i conseguenti doveri e diritti. È il momento per integrare.
Pur essendo l'Italia un paese invecchiato, ha ancora le energie e la forte identità per procedere al processo d'integrazione, che è alla base di un futuro comune. Se la demografia italiana continua a declinare, tra pochi anni saremo un mondo di anziani che ha bisogno di "aiuti" stranieri senza più la capacità d'integrarli.
Credo che l'Italia sia una società dalla grande umanità, ricca di cultura umanistica e dalle buone possibilità economiche. Oggi ha ancora la capacità - anche con la concessione più rapida della cittadinanza (che non rappresenta una svendita ma una conferma) - di costruire una società del domani in cui ci sia spazio per tutti.
Questo tenere sulla soglia di casa gli stranieri è un atteggiamento sbagliato, ingiusto e che nega a tutti un futuro armonico per l'Italia. È una "non visione". Per tutti questi motivi, per la conoscenza che ho del mondo degli immigrati, per l'affetto che ho per l'Italia nel cui futuro credo, voto in maniera affermativa al quinto quesito e ritengo sia giusto farlo per un'Italia più giusta, prospera, fraterna.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del I/6/2025
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