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Il Gandhi dei Balcani

Andrea Riccardi, nella rubrica Religioni e civiltà di "Sette", il magazine del  Corriere della Sera, ricorda un protagonista della non violenza nel cuore dell'Europa. A Ibrahim Rugova, oggi dimenticato, si deve il maggior impulso per l`indipendenza del Kosovo dalla Serbia ortodossa, di cui era una provincia.
 
I Balcani sono la parte d'Europa dove la guerra è ritornata prepotente negli anni Novanta con la fine della Jugoslavia. Il presidente della Repubblica di Macedonia, Kiro Gligorov, colpito da un attentato in cui aveva perso un occhio, mi disse alludendo alla disumanità dei conflitti etnici: «È difficile rimanere uomini nei Balcani». Invece, in questo mondo, c'è stato un "Gandhi dei Balcani": Ibrahim Rugova, oggi piuttosto dimenticato. A lui si deve il maggior impulso per l'indipendenza del Kosovo (a maggioranza albanese e musulmana) dalla Serbia ortodossa, di cui era una provincia. Per i serbi, il Kosovo è territorio sacro, luogo delle origini, pieno di memorie cristiane, che gli albanesi avrebbero occupato con un boom demografico. La storia nei Balcani è pesante. Gli albanesi di oggi sono considerati dai serbi come i turchi che li sconfissero nel lontano 1389 alla Piana dei Merli, per l'appunto in Kosovo. Ogni anno i serbi ricordano questa sconfitta e la Chiesa ortodossa ha canonizzato il principe Lazar caduto in quella battaglia. Oggi i serbi sono appena il 5% nel Kosovo indipendente, dove vivono in difficili rapporti con la maggioranza albanese. Per Rugova, il Kosovo era albanese. Fu il padre dell'indipendenza ma - fatto unico nei Balcani - lottò in modo non violento.
Sosteneva: «C`è chi domanda che le cose vadano in fretta, ma in questa situazione siamo molto prudenti. Continueremo con questa non violenza, perché è la sola via...». Era nato nel 1944. La sua giovinezza è stata segnata dalla repressione comunista di Tito e del nazionalismo serbo. Rugova si dedicò agli studi di lingua e cultura albanese in Kosovo e in Francia, per conservare libertà di spirito e identità albanese, resistendo all'autoritarismo e alla politica di assimilazione di Belgrado: «Per me», dichiarava, «la denuncia del terrore è prima di tutto passata per il linguaggio, per la letteratura». Nel 1989 venne eletto alla presidenza dell'Unione degli scrittori del Kosovo e due anni dopo gli albanesi lo votarono loro presidente in elezioni clandestine. Divenne il leader della lotta per l'indipendenza nazionale attraverso la scelta della non violenza. Consolidò in Kosovo - sotto dominio serbo - uno Stato parallelo, fondato anche sulla tassazione volontaria degli albanesi. Mentre questi venivano espulsi dalle scuole e dalle istituzioni, ne venivano create altre autogestite dagli albanesi stessi. Era un modo di resistere senza accettare il dominio di Belgrado. Non è qui il caso di ripercorrere le complesse vicende del Kosovo. Va ricordato però che la non violenza di Rugova fu anche criticata come debolezza. Egli, però, non cedette al fascino del conflitto e della contrapposizione: «Credo», dichiarava nel 1998, «alla possibilità di una coabitazione tra albanesi e serbi in un Kosovo indipendente». Morì nel 2006, due anni prima che il Paese si autoproclamasse indipendente. D'origine musulmana, Rugova fu sempre un umanista laico (europeo più che balcanico), molto sensibile al cristianesimo (teneva in casa due gigantografie di Madre Teresa e di Giovanni Paolo II, che lo aveva ricevuto in Vaticano). Ho conosciuto abbastanza bene Rugova. Mi ha sempre colpito la sua convinzione di umanista non violento, disposto a sopportare umiliazioni e affronti, persuaso della follia del bellicismo nazionalista. L'ho visitato nella sua modesta casa di Pristina, dove negli anni Novanta risiedeva come "presidente" del Kosovo. Semplice e accogliente, con il suo inseparabile foulard al collo, conduceva l'ospite in una stanza-museo con i minerali del Paese, chiedendogli di sceglierne uno come dono. Scelsi una pietra giallognola che conservo. Lui mi disse che era l'oro del Kosovo. Ma poi aggiunse, liberandomi dall`imbarazzo: «Per fortuna non vale niente, altrimenti non saremo mai indipendenti».

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