Passa ai contenuti principali

La sfida del neopresidente per ridare al Libano il nome di Svizzera del Medioriente

Andrea Riccardi, nella rubrica "Religioni e civiltà" del magazine Sette del Corriere della Sera dell'11 novembre 2016 analizza la situazione del Libano dopo le ultime elezioni presidenziali, ripercorrendo la storia di questo paese al centro di una regione in fiamme.
Il Libano ha finalmente un presidente. Per quarantasei volte il Parlamento non aveva trovato l'accordo su un nome. Sono passati 890 giorni senza capo dello Stato, in una regione in fiamme, con un milione e mezzo di rifugiati su quattro milioni e mezzo di abitanti (senza contare i quasi 450.000 profughi palestinesi). Il presidente è il generale Michel Aoun, cristiano maronita secondo l'accordo intercomunitario: un revenant da una storia complessa che l'ha visto - alla fine degli anni Novanta e della guerra civile - gestire un interim presidenziale con il disegno di liberare il Paese dai siriani che, poi, lo scacceranno. Dopo un lungo esilio, è tornato in patria con una posizione capovolta: amico della Siria e degli hezbollah, nemico dei sunniti di Hariri. Questi, però, ha stretto ora un accordo per portarlo alla presidenza, e ora Hariri è stato scelto come primo ministro. Il Libano, prima della metà degli anni Settanta, era un laboratorio unico di convivenza islamo-cristiana. Giovanni Paolo II disse: «Il Libano non è un Paese, ma è un messaggio». Cristiani e musulmani dialogavano, mentre l'asse tra maroniti e sunniti reggeva lo Stato, chiamato "la Svizzera del Medio Oriente", un paradiso fiscale, con un gran ruolo finanziario. A Beirut si viveva la bella vita nei grandi alberghi e sulla Comiche lungo il mare. Ma anche il Libano era l'unico Paese arabo, dove non si esercitava la censura sulla stampa e si poteva discutere con libertà. Era il Libano delle tante comunità cristiane (maronita, melkita, amena e altre) e musulmane (sunnita, sciita, drusa). Restavano un po' di ebrei. Pierre Gemayel, capostipite di una dinastia politica e fondatore della Falange, milizia nella guerra civile e partito, disse a Tullia Zevi che lo intervistava: «Gli ebrei se ne stanno andando dal Libano: è segno che capiterà qualcosa di grave».

Si aprì un periodo terribile dal 1975 al 1990: guerra civile, terrorismo, interventi stranieri, come quello di Israele e della Siria (che da sempre voleva controllare il Paese). Tanti libanesi se ne andarono e la Svizzera del Medio Oriente si polverizzò. Ricordo Beirut nel 1982: il centro storico totalmente distrutto, i campi palestinesi di Sabra e Shatila con i segni delle violenze dei falangisti. Sono immagini che non dimentico per il loro orrore. Tutti avevano sofferto. La violenza e l'estremismo (collegato al terrorismo internazionale) avevano dominato nel Paese. Eppure i libanesi hanno un'incredibile capacità di ripresa. Dimenticano i torti. Lavorano come chi è abituato a vivere con i terremoti. La Svizzera mediorientale, nel suo liberismo spinto, ha trascurato i marginali: primi gli sciiti. Ricordo il disprezzo dei notabili cristiani verso di loro. Non ci sono né Stato sociale né assistenza medica per tutti. Così gli hezbollah sciiti hanno creato una rete sociale per i loro. Hanno preso le armi e non le hanno più lasciate. I palestinesi sono stati anche uno Stato nello Stato; ma hanno pagato un duro prezzo e ancora sono "ospiti" dal 1948. I drusi di Walid Jumblatt (leader socialista e capo cianico) giocano abilmente il loro piccolo numero. Far vivere il Libano è un'opera complessa fatta di mediazioni, ipocrisie, coraggio. Non si deve alterare l'equilibrio tra musulmani e cristiani, anche se tutti sanno che questi ultimi sono molto diminuiti. Non ci sono due fronti contrapposti: cristiano e musulmano.

Contano i clan: i Gemayel sono contro Aoun. Sciiti e sunniti sono in lotta. I patriarchi cristiani hanno un'influenza relativa, anche perché le Chiese cristiane si sono solo parzialmente rinnovate. Eppure i libanesi amano il loro modo di vivere. In rete con il mondo intero, emigrati ovunque, ritornano nel Paese e ci investono. Il Libano non è più un modello o un messaggio. È un modo di vivere insieme: una democrazia consociativa, in cui vanno tenuti presenti tutti gli attori; ma anche una terra di libertà. Qui un musulmano può cambiare religione. Si discute di tutto. Non c'è Paese arabo con tanta libertà. Eppure lo Stato è a pezzi. La corruzione dilaga. Il comunitarismo e il sistema cianico sono prepotenti. La guerra sconfina dalla Siria. La grande domanda è se il neo presidente Aoun riuscirà a ricreare lo Stato, al di là delle contingenti convergenze politiche.

Commenti

Posta un commento

Post popolari in questo blog

La crisi in Giordania: a rischio un'oasi di pace nel caos del Medio Oriente

Il regno di Abdallah confina con Israele, Siria, Arabia Saudita e Iraq e ospita un altissimo numero di rifugiati Tutto è complicato e in movimento in Medio Oriente: le crisi si susseguono. Un solo Paese è stabile: la Giordania, su cui regnano gli hashemiti, famiglia che discende dal profeta Maometto. Ora il re Abdallah è stato scosso da una congiura, che coinvolge il fratellastro, principe Hamzah (un tempo erede al trono, che poi ha dovuto lasciare il posto al figlio di Abdallah). Il re ha assicurato che la situazione è sotto controllo e Hamzah ha dichiarato fedeltà al sovrano.  È una faida da famiglia reale, forse un po' più significativa di quella dei Windsor, con le rivelazioni del principe Harry e della moglie Meghan. Si gioca la stabilità di uno Stato al confine di Israele, Siria, Arabia Saudita e Iraq, che si affaccia sul Mar Rosso con il porto di Aqaba.  C'è stato un grande allarme internazionale. Il presidente Biden ha telefonato al re per sostenerlo. La crisi sembra r

I corridoi lavorativi: modello di accoglienza e buon senso

Sono un modo sicuro per integrare i rifugiati e avere la manodopera di cui abbiamo bisogno La sorpresa è venuta dalla società italiana: a fronte dei 151.000 posti messi in palio dal decreto flussi (non stagionali), le domande degli italiani sono state oltre 690.000. Una massa di richieste a dimostrazione dell'enorme bisogno di manodopera in quasi tutti i settori. La decrescita demografica rende urgente cercare manodopera all'estero.  La paura e l'allarmismo hanno paralizzato la politica che non ha trovato una soluzione ragionevole. I Governi della Ue sono immobilizzati dallo spirito del tempo: paura dei migranti e idea che ognuno debba fare da sé.  Ma i dati parlano chiaro: l'economia europea ha bisogno di manodopera, ma soprattutto l'inverno demografico rende sempre più urgente un rimedio. In Italia c'è forte inquietudine: secondo i dati dell'Istituto Cattaneo, dovremo andare a cercare gli immigrati, pena il crollo dell'economia perché per cinque pens

La guerra non è inevitabile e il mondo non si deve rassegnare

Papa Francesco entrando all'Arena di Verona saluta Andrea Riccardi  È la costante profezia del Papa: per realizzarla, bisogna investire tutti su diplomazia e dialogo Papa Francesco ha presieduto, sabato 18 maggio, all'Arena di Verona, l'incontro Giustizia e pace si baceranno . L'"Arena di Pace", nata nel 1986, ha avuto sei edizioni. Due nel 1991, il periodo della prima guerra del Golfo, che segnò la massima mobilitazione per la pace. Dal 2003 questo evento non si teneva più.  Negli ultimi due decenni il movimento della pace ha coinvolto meno persone. Resta ancora in Italia un tessuto importante di realtà associative, ma complessivamente il tema della pace è uscito dal dibattito pubblico. Sembra un paradosso, si parla meno di pace proprio quando l'Europa si trova di fronte a un grave conflitto che, a partire dall'aggressione russa, sta dilaniando l'Ucraina. Si aggiunge la drammatica situazione in Terra Santa: l`aggressione terroristica d'Israe