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Le storie della Shoah raccontante dai volti di vittime e persecutori in una mostra a Roma

Le storie della Shoah non finiscono mai di rivelare qualcosa di nuovo. Non basta l'evocazione retorica di quella vicenda, come talvolta è avvenuto con la Resistenza. Anzi questo crea il fastidio di un rituale. Invece la Shoah va narrata e studiata sempre più in modo approfondito. Se si scava, si trova tanta umanità dolente e s'incontrano inedite dimensioni dell'inferno che è stata. Del resto questo era il metodo dei rabbini e degli studiosi ebraici della Bibbia, che scavavano nella pagina della Scrittura, approfondendola con nuove spiegazioni. Metodo, ripreso e rilanciato, dalla lectio dei Padri della Chiesa sulle pagine bibliche. La Shoah ha tanti volti. Il suo volto romano mi ha sempre interrogato. A Roma la Shoah è scoppiata, improvvisa, dopo 1'8 settembre, mentre gli ebrei, in gran parte, si sentivano al sicuro. La caccia all'ebreo è avvenuta in modo rapido, drammatico, intrecciandosi con la presenza della Chiesa a Roma sotto la guida di Pio XII. Da anni si scrive sulla vicenda. Tuttavia, la recente mostra sulla razzia degli ebrei di Roma getta nuova luce su quella terribile storia (in modo semplice e comunicativo ma filologicamente attento). Marcello Pezzetti ha realizzato, con intelligenza, la mostra e curato il catalogo, 16 ottobre 1943. La razzia, pubblicato da Gangemi. La location dell'evento è tanto evocativa: la casina dei Vallati, antico edificio prospiciente il Portico d'Ottavia, dove stazionarono i camion tedeschi per caricare i deportati quel Sabato "nero" del 16 ottobre 1943.
Quello spazio è stato rinominato "Piazza 16 ottobre 1943". Uno degli aspetti più toccanti sono le immagini dei persecutori e delle vittime. Abbiamo letto tante ricostruzioni, ma forse non abbiamo mai visto i volti. Ci sono tante foto di ebrei poi deportati: bambini, feste di famiglia, adulti e anziani. Ricordano una vita indifesa, tra tante difficoltà (come le leggi razziste del 1938), ma serena e inconsapevole del prossimo annientamento. Ci sono i resti di tante esistenze, conservati gelosamente in archivi familiari degli scomparsi. Si vede un quaderno del 1942, appartenente a Rina Di Veroli (di cui c'è una bella fotografia con il fratello Adolfo): dettati, cultura fascista, poesia. I due ragazzi sono morti ad Auschwitz. Il padre, Renato, che li ha cercati per anni sperando fossero sopravvissuti, ha conservato le reliquie di quelle piccole vite spezzate. Nelle foto, riprese in momenti di gioia, le vittime spesso sorridono. Così la piccola Ada Tagliacozzo, poi strappata dalla casa della nonna. Il padre, Arnaldo, salvatosi il 16 ottobre, fu poi tradito e morì ad Auschwitz. I romani, che hanno venduto gli ebrei per denaro, aleggiano in questa storia. Nella mostra ci sono i biglietti lanciati dal treno verso Auschwitz: «Prego chi avrà in mano questo biglietto di recapitarlo subito...», scrive Silvia Sermoneta. Guardiamo le foto dei persecutori: Theodor Dannecker, SS ed esperto per le questioni ebraiche, piombato a Roma per la razzia. Aveva all'attivo varie operazioni antiebraiche in Francia, Bulgaria. Morì suicida a 32 anni nel i945. Il suo volto è banale. Si vedono le foto dei collaboratori e dei soldati usati per la razzia, dei vertici militari e diplomatici tedeschi a Roma (meno convinti dell`operazione per motivi pratici e politici). Gli attori della deportazione compaiono accanto alle vittime. I tedeschi hanno evitato di fotografare le azioni contro gli ebrei; invece queste sono state rappresentate di nascosto da un testimone d'eccezione, Aldo Gay. I suoi dipinti, realizzati in quei giorni, sono oggi esposti alla mostra. Quasi istantanee. Il pittore, non ancora trentenne, sfuggito alla retata, riprodusse in disegni a china e matita i vari episodi cui assistette i1 16 ottobre: le deportazioni delle famiglie e gli arresti. I tedeschi guardarono in faccia quegli ebrei? Il capo delle SS, all'inaugurazione di Dachau nel 1933, aveva detto: «Non li consideriamo come uomini della nostra specie». C'era un muro di odio e pregiudizio che nascondeva, ai loro occhi, bambini come i loro o anziani come i loro genitori o nonni. Quei tedeschi erano efficienti ingranaggi di una macchina di morte che allora funzionava a pieno ritmo in quasi tutta l'Europa.

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 Articolo di Andrea Riccardi pubblicato sul magazine Sette del Corriere della Sera del 23/12/2016 

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