I conflitti vanno fermati prima che diventino tragedie irreparabili. Ogni comunità sia casa di pace
Karol Wojtyla, negli anni grigi della Guerra fredda, scriveva in una poesia: «Io credo che l'uomo soffra soprattutto per mancanza di visione». Non vedeva il futuro. In un quadro differente, è la situazione di oggi. Mentre le guerre continuano, siamo sballottati tra altalenanti notizie di scontri, bombardamenti e, d'altra parte, di possibili incontri. Non c'è una visione globale tra tante rivendicazioni di parte e accuse a vicenda.
Nell'Angelus del 22 giugno scorso, Leone XIV ha affermato una priorità: «Oggi più che mai l'umanità grida e invoca la pace. È un grido che chiede responsabilità e ragione e non dev'essere soffocato dal fragore delle armi e da parole retoriche che incitano al conflitto. Ogni membro della comunità internazionale ha una responsabilità morale: fermare la tragedia della guerra, prima che essa diventi una voragine irreparabile...».
Ha riproposto il pensiero della Chiesa sull'inutilità della guerra: «La guerra non risolve i problemi, anzi li amplifica e produce ferite profonde nella storia dei popoli, che impiegano generazioni per rimarginarsi». Ha chiesto poi: «Che la diplomazia faccia tacere le armi!». Questa è la ferma visione della Chiesa che si fonda su una lunga esperienza rivelatrice di come la guerra lasci il mondo peggiore di come l'ha trovato (papa Francesco).
I Papi hanno sempre indicato la pace come l'obiettivo da raggiungere con il negoziato e la diplomazia. Leone XIII s'impegnò in mediazioni internazionali. Benedetto XV nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, propose un'intesa per finirla con l'«inutile strage». Fu deriso e attaccato come disfattista dai vari nazionalismi. Pio XII, all'alba del secondo conflitto mondiale, disse trepidante: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi». Niente è irrisolvibile nel dialogo. È la convinzione, tanto cristiana, dell'Europa dopo il 1945, che Jean Monnet esprimeva come regola d'oro: «Meglio litigare intorno a un tavolo che su un campo di battaglia». La Chiesa cattolica negli ultimi due secoli ha sentito con più forza il Vangelo di pace: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio», disse papa Giovanni, che lasciò come testamento l'enciclica Pacem in terris, tutta sulla pace. Il Papa sapeva come i cattolicesimi nazionali possono essere preda dello spirito nazionalista. Lo vediamo oggi. Nel mondo ortodosso, nel conflitto russo-ucraino: Chiese che nascono dalla stessa radice benedicono la guerra del proprio Paese.
Ma come diceva papa Francesco: «Il Vangelo è sempre Vangelo di pace, e in nome di nessun Dio si può dichiarare "santa" una guerra». Il ministero di pace del Papa è una grande ricchezza per il mondo. Non può però essere isolato.
Leone XIV ha chiesto alla Chiesa italiana l'impegno per la pace: «Ogni comunità diventi una "casa della pace", dove si impara a disinnescare l'ostilità attraverso il dialogo ... La pace non è un'utopia spirituale». La pace non è riservata ai grandi, ma riguarda tutti nella preghiera, nella partecipazione informata alle vicende del mondo, nell'impegno per liberarci dalla cultura del conflitto che si riversa nelle società. Insomma essere tutti «un popolo di pace», diceva un antico Padre della Chiesa.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 6/7/2025
Commenti
Posta un commento