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Il ritiro dall'Afghanistan: Quel senso di amarezza che ci rimane per un lavoro incompiuto.

Una scuola nella provincia di Samangan in Afghanistan

Nel Paese del "grande gioco" molti progressi sono stati fatti, a cominciare dall'istruzione. Ma la pace resta un sogno

Mestamente si ammaina la bandiera italiana in Afghanistan. Non è il segno di un dominio che finisce. È stata una missione di vent'anni, nata come risposta statunitense e occidentale agli attentati dell'11 settembre 2001. La presenza occidentale ha segnato un cambiamento nella vita del Paese del "grande gioco", come lo chiamò Kipling, dove le donne erano escluse da tutto e ora partecipano alla società, lavorano e studiano. Nove milioni di bambini, al 40% bambine, vanno a scuola: erano un milione (tutti maschi) a fine Novecento. 

Eppure i talebani sono ancora molto forti, mentre Al Qaeda è attiva e recentemente ha rivendicato un eccidio di dieci persone. Settori importanti della società si sono inseriti in un nuovo stile di vita. Solo 70 mila hanno lavorato con gli statunitensi. Decine di afghani con gli italiani: chiedono di venire in Italia con le loro famiglie. Che sicurezza avranno senza l'appoggio militare esterno? E ormai assicurata la vittoria ai talebani? 

Non ci sono risposte chiare, ma molti afghani hanno paura. C'è un senso di amarezza di un lavoro non portato a termine. L'Italia, oltre i feriti e i mutilati, ha perso 53 uomini sul campo in Afghanistan.

 L'operazione è costata otto miliardi e mezzo di euro. Ora tutto resta nelle mani della capacità difensiva dei militari afghani, che sono più di 300 mila, tutti preparati dagli occidentali. In caso di sconfitta, viene da dire: povero Afghanistan! E già gli afghani hanno tanto sofferto e in molti hanno dovuto abbandonare il Paese, specie quelli delle minoranze, come gli hazara che sono il 22% della popolazione. 

Come siamo lontani dai sogni un mondo in pace, nutriti dopo la fine della Guerra fredda! Abbiamo sprecato opportunità e speranze nel passaggio tra il XX e il XXI secolo. Tutto si è irrigidito.

 Antichi conflitti non si sono chiusi, mentre nuovi se ne sono aperti: nel Nord del Mozambico con una guerriglia islamica che ha provocato 600 mila rifugiati; recentemente nel Tigrai con l'intervento eritreo e in Etiopia. Sono solo due esempi. 

Ci vuole un nuovo ordine. A questo non ha giovato la scomposizione dell'Occidente, frutto della presidenza Trump, che ha introdotto un senso di destino diverso tra Ue e Stati Uniti, mai avvenuto dal secondo dopoguerra. Gli appuntamenti internazionali di questi giorni, come il G7, il vertice Nato e quello Usa-Ue a Bruxelles, sono rilevanti per ricreare una visione rinnovata, forte della presidenza di Joe Biden. L'Occidente ha una sua unità, che nasce dalla storia, ma anche dal radicamento nella democrazia. Non si tratta di riprodurre uno schema di nuova guerra fredda che vedrebbe opposte all'Occidente Cina e Russia. 

Nel disordine internazionale di questi tempi, occorre rilanciare un quadro organico di cooperazione. Il mondo è multipolare e non si imbriglia in uno schema bipolare da guerra fredda, che assimila Russia e Cina nello stesso campo. Gli scontri, anche verbali, rafforzano i falchi di ogni campo nel presunto realismo che non è possibile una visione globale più cooperativa. La realtà è molto più complessa. Ma questa complessità, segnata da troppe aree di conflitto e da problemi globali (non fosse che quello del clima), ha bisogno di cooperazione a largo raggio. 


Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 20/6/2021



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