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Le fiamme di Lesbo risveglino le coscienze

Serve un'intesa fra Ue, singole nazioni, Chiese e Ong per risolvere un dramma alle porte del continente

Il campo di Moria nell'isola di Lesbo è bruciato. Ci sono solo rovine. Ben 13.000 profughi sono sulla strada. Girano laceri, senza ricovero e affamati. Conosco Moria, un campo incredibile: tra l'altro era circondato da una selva di tende "provvisorie", destinate a durare a lungo, sotto il grande caldo estivo e il vento sferzante d'inverno. 

Il primo lembo d'Europa, toccato da migliaia e migliaia di persone, dopo viaggi incredibili dall'Afghanistan, dalla Siria, dai Paesi africani e altrove. L'Europa sfugge però dalle loro mani, proprio mentre vi pongono i piedi. Lesbo, con i suoi campi, è un muro: l'Europa sta lì, ma non possono entrarci. In questa posizione passano mesi e talvolta anni, un tempo senza fine, mentre cresce la disperazione. 

Quest'estate - anche a causa del Covid-19 - le misure sono state più severe. Il clima è divenuto più teso con una parte degli abitanti dell'isola (di cui non va dimenticata l'accoglienza all'inizio e anche una bonarietà diffusa). 

La pandemia ha peggiorato la situazione. Il campo di 13.000 profughi è non lontano dalla città di Mitilene, con 37.000 abitanti. Si capiscono le tensioni. Sono cresciuti i gruppi sovranisti ostili ai migranti. Qualche volta ci sono state manifestazioni dure, come proibire loro di fare il bagno in mare o altro. Anche qualche piccolo incendio non lontano dal campo.

Quando nel 2018, dopo un mio viaggio a Lesbo, parlai della desolazione umana dei campi a papa Francesco, richiamando la sua visita del 2016, il suo volto si segnò di dolore: «Non basta una visita, bisogna far di più!» disse. Nel 2016 era tornato a Roma con una ventina di rifugiati. La sua presenza mise in luce che c'era una frontiera europea del dolore. 

La Comunità di Sant'Egidio ha passato l'estate a Mitilene con i profughi: scuola, studio dell'inglese, cibo, feste, incontri, colloqui per identificare le prospettive del futuro... Questo è avvenuto a fianco dell'apertura di due corridoi umanitari che hanno portato in Italia alcuni di loro: una sessantina di persone. Il presidente Macron ne ha disposto un altro per una trentina. La Germania andrà a prendere una trentina di rifugiati e, dopo l'incendio, ne accoglierà altri. L'arcivescovo del Lussemburgo ha accolto due famiglie e, come presidente della COMECE, che riunisce le Chiese cattoliche nell'UE, ha sollecitato le conferenze episcopali a farsi carico del dramma di Lesbo. 

Le fiamme, però, risvegliano le istituzioni di ogni tipo, addormentate o distratte di fronte al dramma alle porte dell'Europa. Quello di Lesbo sembra un incendio appiccato volontariamente. Da chi? Per ora non si sa. Potrebbero essere alcuni ospiti del campo. Forse ci sono interessi oscuri. O solo rabbia. Ma è l'esito scontato di una situazione impossibile. La questione è scoppiata. 

Ci vuole un'alleanza di "volenterosi" per rimediare a una situazione incancrenita: Unione Europea, singoli Stati, Chiese, organizzazioni umanitarie e tant'altro. Non si può scaricare il problema sulla Grecia né attendere un altro incendio. Ma già si delineano alcuni no da parte dei Paesi dell'Est e dell'Austria. 

Come possiamo continuare a chiamarci europei, quando tanto dolore si accalca alle nostre frontiere e ci voltiamo dall'altra parte?


Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 20/9/2020


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