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Crisi in Birmania: la scommessa persa di Aung San Suu Kyi



L'esercito personifica l'unità nazionale, mentre la premio Nobel paga le "debolezze" verso l'Occidente

La democrazia globale fa un altro passo indietro: questa volta in Asia. In Myanmar (un tempo Birmania) i militari riprendono il potere, dopo averlo concesso ai civili da pochi anni. Pare che la "signora" Aung San Suu Kyi (de facto capo del Governo dal 2016) sia agli arresti domiciliari nella sua residenza. 

Il generale Min Aung Hlaing ha preso il potere. «Era inevitabile», dichiarano dall'esercito. La transizione verso una democrazia piena è stata giudicata troppo rapida dagli alti gradi, che rappresentano anche un sostanziale pezzo dell'economia birmana. 

L'esercito del Myanmar è un soggetto sociale e politico, cui fanno riferimento milioni di birmani. L'immagine di casta ristretta e arrogante, diffusa in Occidente, non corrisponde del tutto alla realtà. Il Tatmadaw (il nome ufficiale) sente di rappresentare la nazione mediante la preservazione delle tradizioni popolari birmane. 

Il Myanmar ha frontiere porose, con contaminazioni con i vicini (primi i cinesi) e molte minoranze etniche interne (circa 130) come i Karen, i Chin o i Jingpo (mentre i Rohingya non sono considerati nemmeno cittadini). Il Paese unisce sette regioni (chiamate Burma Proper o Birmania propriamente detta) e sette Stati delle minoranze. La struttura è quasi federale. 

Un collante dell'unità nazionale è il buddhismo (quasi il 90% dei birmani, mentre il 6% è cristiano e il 4% musulmano). In quest'articolazione fragile, l'esercito (dal 1962 con poche parentesi) cerca di personificare lo spirito della nazione. 

La democrazia sostenuta dall'Occidente e incarnata da Suu Kyi ha una tradizione: il padre, il generale Aung San, fu il primo premier indipendente, che ottenne la libertà dai britannici. Fu ucciso pochi anni dopo da un oppositore e da quel giorno la famiglia è stata l'unica alternativa ai regimi successivi. 

Dopo 21 anni di arresti, di cui 15 di domiciliari, la figlia Suu Kyi era diventata un'icona della resistenza democratica. I lunghi negoziati del 2010 avevano creato un quadro di convivenza tra il partito della signora, la Lega democratica, e i generali. Il potere di veto e il controllo di alcuni ministeri chiave non bastavano più ai militari. Si parla di un astio personale tra la premio Nobel per la pace e Min Aung che ha finito per prevalere anche perché il partito del generale è stato battuto dalla Lega democratica alle ultime presidenziali. 

Non bisogna dimenticare la presenza della Cina alle porte: un braccio della Via della seta passa per la Birmania. Forse la "signora" era divenuta troppo ingombrante. Non hanno aiutato la democrazia birmana le sanzioni dell'Occidente per le accuse di genocidio contro i Rohingya, che hanno indebolito Suu Kyi, accusata dai militari di non protestare abbastanza contro i "suoi amici" occidentali. 

I veri perdenti del conflitto interno al Myanmar sono ancora una volta i Rohingya, usati come clava dall'esercito contro la Lega democratica. Musulmani e quindi mal visti, i Rohingya hanno da sempre uno status incerto in Birmania: "lavoratori ospiti" senza cittadinanza. Questo spiega la facilità dell'espulsione di circa 600 mila di loro verso il Bangladesh. Con il ritorno dei militari al potere, la loro situazione non potrà che peggiorare. 

E la democrazia mondiale perde un altro pezzo in favore del modello autoritario e iperliberista imposto nella globalizzazione.


Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 14/2/2021

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