Andrea Riccardi sul Corriere della Sera
L’emigrazione o la ricerca di dittatori-protettori non è la soluzione per salvarsi. In tre grandi Paesi arabi è in gioco la democrazia: negata violentemente da Assad in Siria, incapace di gestire la convivenza tra sciiti e sunniti in Iraq, ridiscussa dal colpo di Stato militare in Egitto, perché i Fratelli musulmani l’avrebbero sequestrata.
La democrazia non sembrerebbe in grado di gestire il pluralismo stratificato delle società arabe, dove ci sono modi diversi di essere musulmani (sciiti e sunniti, laici, spirituali e fondamentalisti), dove ci sono diversità etniche, come i curdi, e minoranze cristiane. La vita dei cristiani è infatti una vera cartina di tornasole delle turbinose società musulmane. Nel 2014 saranno cent’anni dalla prima grande strage del Novecento: quella degli armeni uccisi con tanti altri cristiani dell’impero ottomano. Lo vollero non tutti i turchi e non tutti i musulmani, ma i nazionalisti «Giovani turchi», mobilitando odio e fanatismo.
Dopo la Prima guerra mondiale, i maroniti (cattolici) ottennero il Libano, dove i cristiani erano maggioritari: davano voce alla convinzione cristiana di non essere sicuri sotto la maggioranza musulmana. Nacque la fragile democrazia libanese, un piccolo mondo originale tra gli arabi, provato in seguito da tanti dolori. Per altri cristiani ci fu l’illusione della protezione europea. Per i più sicurezza volle dire credere nel nazionalismo arabo: lo fecero gli ortodossi in Siria (cui appartiene Paul Yagizi, vescovo di Aleppo rapito da ignoti con il vescovo siriaco Mar Gregorios).
Dal grembo del nazionalismo arabo sono venuti tanti dittatori, a cui i cristiani sono stati per lo più leali considerandoli una protezione dalla maggioranza islamica. Hanno sperato in una laicizzazione dell’Islam; ma è venuto il fondamentalismo. Saddam Hussein, in Iraq, rappresentava una sicurezza per i caldei (cattolici). I cristiani di Siria vedono la fine di Assad come un salto nel buio (diversamente pensa padre Dall’Oglio — che speriamo presto libero — schierato con l’opposizione siriana). I dittatori sono stati una sicurezza per i cristiani, che pur ne conoscevano il doppio gioco. Il potere di Mubarak era dietro al terribile attentato alla chiesa copta d’Alessandria all’inizio del 2011, alimentando la strategia della tensione. È vero che, durante la «primavera» egiziana, musulmani e cristiani chiedevano insieme la libertà. Ma i vescovi erano perplessi: la democrazia non avrebbe portato il dominio della maggioranza (musulmana)? Non è un caso che il patriarca copto Tawadros abbia palesemente appoggiato il colpo di Stato di Al Sisi. Una posizione rischiosa per una minoranza, indice del gran timore per il futuro.
In Iraq non si contano gli attentati ai cristiani, facile bersaglio. Non c’è stato un disegno sul loro futuro: restare a Baghdad tra i musulmani o concentrarsi in una regione più cristiana, come la piana di Ninive? Tra le incertezze, i cristiani emigrano. In Iraq ne restano molto meno della metà dell’inizio della guerra a Saddam. All’inizio del Novecento erano il 25% degli iracheni e ora sono l’1%. In Siria erano nel 1960 il 15% e oggi forse il 6%. In Egitto restano tanti, circa il 10%. Ma anche qui il futuro è buio. I Paesi occidentali possono poco; anzi, spesso la loro «protezione» ha creato difficoltà ai cristiani orientali con i governi e l’opinione pubblica. Forse i cristiani del mondo possono di più dei governi: non solo dare solidarietà (che deve crescere), ma elaborare una visione. Questa manca in un periodo in cui sono rare quelle della politica, come si vede dall’incertezza americana sull’Egitto e dall’impotenza europea. Durante la Guerra fredda, di
fronte alla grave situazione dei cattolici dell’Est, la Santa Sede fece prima una strenua opposizione, poi, da Giovanni XXIII, praticò il dialogo, che prese il nome di Ostpolitik. Scelte frutto di visioni. Nel mondo arabo, è tutt’altra vicenda, ma ci vuole una concentrazione di idee e di relazioni. Forse bisogna riunire i grandi leader delle Chiese cristiane. Anche questo è ecumenismo. Le minoranze cristiane vanno aiutate a non restare ostaggio di situazioni impossibili. L’emigrazione o la ricerca dei dittatori-protettori non possono essere le uniche scelte per i cristiani. Non hanno futuro. In Egitto, al Tayyib, gran imam di Al Azhar (purtroppo in cattivi rapporti con il Vaticano), ha lanciato la riconciliazione nazionale. Ora non facilmente praticabile.
Ma questo è lo spazio dei cristiani. Il loro futuro non sarà facile nel mondo arabo.
Il XXI secolo
conoscerà la fine dei cristiani d’Oriente? Non ce lo auguriamo. Finirebbe una storia bimillenaria. Sarebbe una grande perdita per il mondo arabo-musulmano, perché i cristiani sono un pilastro di pluralismo in quelle società e una garanzia contro il totalitarismo.
L’emigrazione o la ricerca di dittatori-protettori non è la soluzione per salvarsi. In tre grandi Paesi arabi è in gioco la democrazia: negata violentemente da Assad in Siria, incapace di gestire la convivenza tra sciiti e sunniti in Iraq, ridiscussa dal colpo di Stato militare in Egitto, perché i Fratelli musulmani l’avrebbero sequestrata.
La democrazia non sembrerebbe in grado di gestire il pluralismo stratificato delle società arabe, dove ci sono modi diversi di essere musulmani (sciiti e sunniti, laici, spirituali e fondamentalisti), dove ci sono diversità etniche, come i curdi, e minoranze cristiane. La vita dei cristiani è infatti una vera cartina di tornasole delle turbinose società musulmane. Nel 2014 saranno cent’anni dalla prima grande strage del Novecento: quella degli armeni uccisi con tanti altri cristiani dell’impero ottomano. Lo vollero non tutti i turchi e non tutti i musulmani, ma i nazionalisti «Giovani turchi», mobilitando odio e fanatismo.
Dopo la Prima guerra mondiale, i maroniti (cattolici) ottennero il Libano, dove i cristiani erano maggioritari: davano voce alla convinzione cristiana di non essere sicuri sotto la maggioranza musulmana. Nacque la fragile democrazia libanese, un piccolo mondo originale tra gli arabi, provato in seguito da tanti dolori. Per altri cristiani ci fu l’illusione della protezione europea. Per i più sicurezza volle dire credere nel nazionalismo arabo: lo fecero gli ortodossi in Siria (cui appartiene Paul Yagizi, vescovo di Aleppo rapito da ignoti con il vescovo siriaco Mar Gregorios).
Dal grembo del nazionalismo arabo sono venuti tanti dittatori, a cui i cristiani sono stati per lo più leali considerandoli una protezione dalla maggioranza islamica. Hanno sperato in una laicizzazione dell’Islam; ma è venuto il fondamentalismo. Saddam Hussein, in Iraq, rappresentava una sicurezza per i caldei (cattolici). I cristiani di Siria vedono la fine di Assad come un salto nel buio (diversamente pensa padre Dall’Oglio — che speriamo presto libero — schierato con l’opposizione siriana). I dittatori sono stati una sicurezza per i cristiani, che pur ne conoscevano il doppio gioco. Il potere di Mubarak era dietro al terribile attentato alla chiesa copta d’Alessandria all’inizio del 2011, alimentando la strategia della tensione. È vero che, durante la «primavera» egiziana, musulmani e cristiani chiedevano insieme la libertà. Ma i vescovi erano perplessi: la democrazia non avrebbe portato il dominio della maggioranza (musulmana)? Non è un caso che il patriarca copto Tawadros abbia palesemente appoggiato il colpo di Stato di Al Sisi. Una posizione rischiosa per una minoranza, indice del gran timore per il futuro.
In Iraq non si contano gli attentati ai cristiani, facile bersaglio. Non c’è stato un disegno sul loro futuro: restare a Baghdad tra i musulmani o concentrarsi in una regione più cristiana, come la piana di Ninive? Tra le incertezze, i cristiani emigrano. In Iraq ne restano molto meno della metà dell’inizio della guerra a Saddam. All’inizio del Novecento erano il 25% degli iracheni e ora sono l’1%. In Siria erano nel 1960 il 15% e oggi forse il 6%. In Egitto restano tanti, circa il 10%. Ma anche qui il futuro è buio. I Paesi occidentali possono poco; anzi, spesso la loro «protezione» ha creato difficoltà ai cristiani orientali con i governi e l’opinione pubblica. Forse i cristiani del mondo possono di più dei governi: non solo dare solidarietà (che deve crescere), ma elaborare una visione. Questa manca in un periodo in cui sono rare quelle della politica, come si vede dall’incertezza americana sull’Egitto e dall’impotenza europea. Durante la Guerra fredda, di
fronte alla grave situazione dei cattolici dell’Est, la Santa Sede fece prima una strenua opposizione, poi, da Giovanni XXIII, praticò il dialogo, che prese il nome di Ostpolitik. Scelte frutto di visioni. Nel mondo arabo, è tutt’altra vicenda, ma ci vuole una concentrazione di idee e di relazioni. Forse bisogna riunire i grandi leader delle Chiese cristiane. Anche questo è ecumenismo. Le minoranze cristiane vanno aiutate a non restare ostaggio di situazioni impossibili. L’emigrazione o la ricerca dei dittatori-protettori non possono essere le uniche scelte per i cristiani. Non hanno futuro. In Egitto, al Tayyib, gran imam di Al Azhar (purtroppo in cattivi rapporti con il Vaticano), ha lanciato la riconciliazione nazionale. Ora non facilmente praticabile.
Ma questo è lo spazio dei cristiani. Il loro futuro non sarà facile nel mondo arabo.
Il XXI secolo
conoscerà la fine dei cristiani d’Oriente? Non ce lo auguriamo. Finirebbe una storia bimillenaria. Sarebbe una grande perdita per il mondo arabo-musulmano, perché i cristiani sono un pilastro di pluralismo in quelle società e una garanzia contro il totalitarismo.
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