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Il pericolo più grande è abituarsi alla cultura del conflitto


Papa Leone XIV interviene il 28 ottobre all'incontro interreligioso promosso a Roma dalla Comunità di Sant'Egidio - Foto Sant'Egidio 


Occorre che tutti, la Chiesa per prima, ci ribelliamo a una mentalità che accetta la divisione fra i popoli

Buchenwald fu uno dei più grandi lager nazisti: vi erano prigionieri politici, rom, omosessuali, Testimoni di Geova, ebrei, "asociali". Vi ebbero luogo dolorosi esperimenti medici. Il direttore del memoriale, Jens-Christian Wagner, ha denunciato il recente imbarbarimento dei visitatori del lager, specie giovani: adesivi nazisti e svastiche sui muri, ragazzi fotografati ridendo dentro i forni. A la Repubblica ha dichiarato: «In alcune aree della Germania Est il pensiero estremista ha conquistato un'egemonia politica e culturale». Si manifesta la presa del partito neonazista, Afd, che ha «un'idea etnica di Stato, che esclude chiunque abbia origini straniere». Il cancelliere Merz ha dichiarato: «Costruiremo la più potente forza armata convenzionale d'Europa». Ma per quale Germania la costruiremo? La domanda ci inquieta. 

La riabilitazione della guerra ha sdoganato la cultura del conflitto, il populismo in società ormai fondate sull'io, che vogliono essere protette da un leader e aver un nemico. È inaccettabile: un «ritorno indietro», diceva papa Francesco, che nega la lezione del Novecento e calpesta il messaggio del Vangelo. 

Sessant'anni fa, il 28 ottobre 1965, il Vaticano II approvava la Nostra aetate sul dialogo con le religioni, che afferma: «Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni... la Chiesa esecra, come contraria alla volontà di Cristo, qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione». Questa è la visione evangelica della Chiesa che abbraccia cristiani di diversa origine nelle sue comunità e vive in quasi tutti i Paesi del mondo. Non c'è fondamento per nessuna discriminazione. O i popoli vivranno in pace o, prima o poi, sarà la fine per tutti. Fratelli tutti, diceva papa Francesco. Oggi c'è un'emergenza: la guerra, ma anche quel cambiamento di mentalità che sta creando polarizzazioni tra popoli e nei popoli con odio e violenza. Non si può aspettare. 

Il rischio è essere un po' addormentati nelle nostre abitudini ecclesiali, presi dai ritmi interni alla Chiesa. Così si lascia un mondo senza alternative. Bisogna parlare di più e comunicare con pacifica convinzione quello che crediamo, che è un'alternativa. 

Alla preghiera per la pace, nello spirito di Assisi, promossa dalla Comunità di Sant'Egidio a Roma, di fronte ai leader delle religioni, Leone XIV ha quasi tracciato un programma per il futuro: «Con la forza della preghiera, con mani nude alzate al cielo e con mani aperte verso gli altri, dobbiamo far sì che tramonti presto questa stagione della storia segnata dalla guerra e dalla prepotenza della forza e iniziare una storia nuova. Non possiamo accettare che questa stagione perduri oltre, che plasmi la mentalità dei popoli, che ci si abitui alla guerra come compagna normale della storia umana. Basta! È il grido dei poveri e il grido della terra. Basta! Il Signore ascolti il nostro grido». 

Il Papa ha citato Giorgio La Pira: «Ci vuole una storia diversa del mondo: la "storia negoziale". La storia di un mondo senza guerra. Sono parole che oggi più che mai possono essere un programma per l'umanità». E questa storia possiamo costruirla tutti, giorno dopo giorno: con le mani tese agli altri, con il dialogo, con la preghiera.


Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 9/11/2025




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