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La storia di un’amicizia - Un saggio di Andrea Riccardi sul rabbino Toaff e l'amicizia con Sant'Egidio


Il rabbino dei momenti difficili: tra antisemitismo e indifferenza.


Elio Toaff è diventato, negli anni, un personaggio familiare per i romani di tutte le estrazioni. E’ una delle grandi personalità di Roma nella seconda metà del Novecento. Ma è anche una delle non molte personalità nazionali che abbia una grande autorevolezza morale. Non era così nei primi anni del suo servizio alla Comunità ebraica di Roma. Infatti Toaff è stato nominato rabbino capo dal 1951, quando questa ancora si stava ricostruendo dopo le terribili sofferenze delle deportazioni, della dispersione e della Shoah. Toaff è stato il rabbino della ricostruzione dopo il dramma. C’erano problemi di ordine sociale e religioso, ma anche legati alla persistenza dell’antisemitismo in alcuni ambienti della capitale.

In Italia non si erano fatti i conti con la Shoah e non ci si era misurati pienamente, a livello di opinione pubblica italiana, con il suo lascito. Infatti il dramma della Shoah è stato recepito con lentezza e tra molte resistenze, in gran parte inespresse. Toaff stesso racconta degli anni Cinquanta: “quello che mi preoccupava era il fatto che quell’antisemitismo, che non era venuto meno neanche dopo la guerra, ma che non aveva avuto il coraggio di manifestarsi, ora invece… potesse sentirsi così forte da uscire allo scoperto.” L’antisemitismo non si era esaurito; ma soprattutto la società romana, nel suo complesso, non aveva capito il significato e il valore della presenza di una Comunità ebraica, così antica e radicata.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il rabbino capo si impegnò molto nella vita interna di una Comunità,  provata dalle difficoltà e dalle crisi della sua stessa dirigenza: c’è un aspetto concreto della sua azione che offre anche uno spaccato dello spessore sociale e umano del mondo degli ebrei di Roma. Toaff stesso racconta come è maturata la sua scelta da giovane di lavorare per la Comunità: suo padre, rabbino capo di Livorno, invitò il figlio, divenuto anche lui rabbino, a non seguire l’esempio dei suoi fratelli, emigrando in Israele, ma a restare con gli ebrei italiani. La vita di Elio Toaff è tutta dedicata alla ricostruzione dell’ebraismo italiano e romano, allo sviluppo della fede religiosa, della cultura ebraica, delle opere della Comunità.

Ma Toaff compie anche un’altra importante operazione, proprio partendo dalla più grossa Comunità ebraica italiana, situata nella capitale: fare dell’ebraismo una componente importante, anche se minoritaria, nella società italiana di allora. Era una società dominata dallo scontro tra cattolici e comunisti, dal clima della guerra fredda –si pensi al clima delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 e ai successi appuntamenti elettorali-, ma anche immersa in un conformismo sociale e culturale, disinteressato rispetto alla realtà ebraica. Lo stesso cattolicesimo, che in buona parte influenzava la società italiana, non aveva un peculiare interesse per gli ebrei e la loro religione.

Il rabbino lavora nella sua Comunità di Roma, ma guarda anche alla società italiana, dove compie l’operazione importante di coagulare personalità della cultura, della politica, del mondo dei media, attorno alla lotta contro il risorgente antisemitismo. Intorno a questa battaglia non c’è l’unanimità, ma si manifesta spesso scarsa attenzione da parte degli attori politici e sociali. Non dobbiamo retrodatare il clima attuale di generale simpatia per la Comunità ebraica, di forte memoria della Shoah, di ripudio piuttosto generalizzato dell’antisemitismo; allora c’era una tradizionale indifferenza (come si è detto), talvolta anche fastidio per la “diversità” ebraica. In realtà la personalità di Toaff riesce a mostrare ai romani e agli italiani come la “diversità” ebraica sia una ricchezza per il panorama nazionale, ma venga messa a rischio dalle correnti di ostilità che, anche dopo la seconda guerra mondiale, attraversavano la società italiana. Gli attacchi agli ebrei provenivano in modo particolare dal mondo di destra, neonazista e neofascista, mentre in alcuni settori del cattolicesimo sopravvivevano stereotipi antigiudaici.

Non sempre era facile la convivenza di una piccola minoranza a Roma con gli altri, in quel clima di conformismo un po’ clericale, tipico degli anni Cinquanta. Non era però l’unico problema: il clima era distratto e poco consapevole del significato dell’ebraismo a Roma e in Italia, che finiva per considerare eccessivi gli allarmi ebraici. Ha scritto Elio Toaff: “una delle maggiori cause dell’antisemitismo è proprio l’ignoranza di quello che è stato il contributo ebraico allo sviluppo della civiltà…”. In gran parte la società italiana del secondo dopoguerra ignorava gli ebrei, come si è detto.

Ricordo bene, per averlo vissuto nella seconda metà degli anni Sessanta, l’impatto di una minoranza di giovani ebrei che studiavano in un Liceo classico romano del Centro storico, il Virgilio, dove un preside intelligente e illuminato, il prof. Giuseppe Dall’Oglio, curava con grande attenzione l’inserzione dei ragazzi ebrei nel clima della scuola e considerava la loro presenza una ricchezza per l’istituto. Era la seconda metà degli anni Sessanta, dopo il Concilio Vaticano II. Tra l’altro Dall’Oglio, che a Trani in Puglia aveva fronteggiato i tedeschi, era un convinto assertore di iniziative ecumeniche ed aveva condotto i suoi studenti ad Istanbul, ad incontrare il patriarca ecumenico, Athenagoras, primo gerarca della Chiesa ortodossa. Gli era a fianco un prete intelligente, studioso di patristica, don Emilio Gandolfo, molto sensibile ai temi dell’ebraismo. Dall’Oglio, da quella figura di educatore intelligente e di uomo dalle larghe vedute, considerava la presenza di giovani ebrei nel suo Liceo, come un valore su cui investire. Non era sempre facile essere minoranza in un’Italia, certodemocratica, ma ancora segnata culturalmente dall’eredità dell’opinione pubblica fascista e da un forte conformismo sociale.

A Roma c’erano gli ebrei, intesi come romani che individualmente professavano la fede ebraica e che erano integrati nella vita sociale; ma non si era creato un consenso sociale o un’attenzione collettiva attorno all’ebraismo e alla Comunità ebraica. Qui c’è una storia minore di piccole e meno piccole difficoltà che il rabbino capo di Roma affrontava quotidianamente e vedeva affrontare dagli ebrei. Soprattutto la Comunità romana romana non erano un soggetto religioso-sociale riconosciuto nella vita della capitale. Gli ebrei c’erano, rispettati, ovviamente inseriti nella vita di Roma. Ma la Comunità meno. I romani conoscevano la sinagoga sul lungotevere, come uno dei tanti luoghi di culto della città.

La grande opera di Toaff, attraverso i suoi interventi pubblici e la rete fitta delle sue relazioni, è stata quella di fare dell’antichissima Comunità di Roma un soggetto pubblico nella vita romana. Non si trattava solo di rispetto o di libertà di una minoranza, peraltro garantito dalla legge, quanto della comprensione dell’ebraismo romano come di una realtà qualificante Roma nella sua storia, ma soprattutto nel suo presente. Questo processo di emersione della soggettività pubblica della Comunità nella vita cittadina e in quella italiana si è manifestato peculiarmente nella progressiva crescita del rabbino Toaff, come di una personalità morale nel panorama nazionale.

E’ stato un processo maturato in mezzo ai problemi e alle difficoltà. Negli anni Settanta, specie nella seconda metà, quando cominciava a soffiare il vento dell’antisemitismo (come lo chiama il rabbino: “il vento dell’odio”), Toaff è alla testa di manifestazioni, incontri, riunioni. Il 7 ottobre 1977 guida un corteo di tremila persone fino a palazzo Farnese per chiedere all’ambasciatore di Francia la protezione degli ebrei dal nazifascismo in quel paese. Non è che un esempio della multiforme attività del rabbino, che non si risparmia in quegli anni. Ormai il “vento dell’odio” soffiava da parecchie direzione: non solo da destra, come tradizionalmente avveniva (era accaduto anche nell’immediato dopoguerra), ma l’antisemitismo veniva anche da sinistra. Nel mondo di sinistra l’antisemitismo si legava in modo particolare alla solidarietà alla causa palestinese (molto popolare nell’Italia degli anni Settanta-Ottanta) e all’ostilità allo Stato d’Israele. Era un corto circuito rilevante che si sarebbe più volte ripetuto.

Dall’indifferenza alla simpatia: la vicenda del mondo cattolico

Dagli anni Sessanta, però, a Roma, si era manifestata una nuova attenzione da parte di alcuni esponenti del mondo cattolico alla realtà dell’ebraismo. Questa attenzione, in passato, era stata limitata solo a qualche raro personaggio, interessato alle questioni bibliche che aveva intessuto rapporti cordiali con rabbini o intellettuali ebrei. Durante la seconda guerra mondiale, di fronte alla persecuzione nazista, parecchi ebrei, con le loro famiglie, erano stati ospiti di istituzioni cattoliche, talvolta di conventi femminili. Si erano intessute relazioni personali intense tra ebrei e religiosi. Il cappuccino padre Marie-Benoit, che aveva collaborato per il salvataggio degli ebrei con la Delasem, dopo la liberazione e la riapertura del Tempio, fu chiamato a partecipare a una cerimonia religiosa ebraica e a prendere la parola, salutato da “un tuono di applausi”– come ricorda lui stesso. Tuttavia bisogna aspettare il Vaticano II, perché maturi un atteggiamento di maggiore attenzione del mondo cattolico all’ebraismo e non sia il fatto solo di alcune personalità significative ma isolate.

Toaff era molto attento al mondo cattolico. Veniva da una tradizione (suo maestro era stato suo padre, allievo del grande Benamozegh, anima del collegio rabbinico livornese), quella dell’ebraismo di Livorno, città mediterranea e pluralista, che sempre aveva dialogato con le religioni e che rappresentava tradizionalmente un’eccezione per la Toscana. In un’intervista Toaff ha raccontato dell’amicizia del vescovo di Livorno con suo padre, alla cui morte questi fece suonare a morto le campane lungo il percorso del corteo funebre.

Durante la guerra, il rabbino aveva conosciuto la solidarietà dei religiosi cattolici: ricordava quella di don Bernardino, parroco della chiesa del Sacro Cuore ad Ancona. Tuttavia, negli anni Cinquanta, a Roma non esistevano grandi rapporti con la Chiesa cattolica. Pesava ancora l’episodio della conversione al cattolicesimo del rabbino capo di Roma, Italo Zolli, che aveva preso il nome di Eugenio, su cui Gabriele Rigano ha scritto un illuminante volume.

C’era una distanza tradizionale tra ebrei e cattolici a Roma, eredità degli anni lontani dello Stato pontificio e della politica del ghetto, che solo in parte era stata dissipata dalla vicenda dell’”inverno più lungo”, i terribili mesi dell’occupazione tedesca tra il 1943 e il 1944. Se non mancavano rapporti cordiali, talvolta forgiati nel periodo per pericolo, c’era un distacco istituzionale e storico. L’atteggiamento poco interessato del mondo cattolico contribuiva a quella indifferenza generalizzata che circondava la Comunità ebraica di Roma, pericolosa quando si scatenavano i venti dell’antisemitismo.

E’ noto come Toaff sia stato decisivo nel rompere il ghiaccio a Roma tra ebrei e Chiesa cattolica. Egli ha avuto relazioni cordiali con il card. Agostino Bea, gesuita e biblista, personaggio chiave nell’apertura di nuovi rapporti tra cattolici e ebrei. Toaff stesso ricorda come la simpatia di Bea per gli ebrei “non gli rese sempre la vita facile”. Si conobbero prima del Concilio, nella biblioteca dell’Istituto biblico dei gesuiti. Bea non era ancora divenuto il prestigioso responsabile del dicastero per le relazioni con l’ebraismo e con le confessioni non cattoliche.

Tuttavia, per arrivare ad una stagione nuova di rapporti tra cattolici e ebrei, bisogna aspettare la recezione del messaggio del Vaticano II da parte della massa dei cattolici e alcuni gesti eloquenti da parte dei papi verso la Comunità ebraica e l’ebraismo. Sono due aspetti decisivi: il Concilio stabilisce la base di un rapporto franco e cordiale, mentre cambia l’atteggiamento dei papi verso l’ebraismo, ma in particolare la Comunità ebraica più vicina alla Santa Sede. Durante la recente visita di Benedetto XVI al Tempio Maggiore degli ebrei di Roma, nel 2010, il rabbino Riccardo Di Segni ha ricordato come il Vaticano II rappresenti il fondamento di più sincere relazioni tra ebraismo e Chiesa cattolica.

Fu lo stesso rabbino Toaff ad essere protagonista di un nuovo, seppur fugace, incontro tra gli ebrei di Roma e il papa. Questi incontri, in realtà, avevano una lunga tradizione, segnata dall’amarezza: quella dell’omaggio che gli ebrei, sudditi e umiliati, offrivano al papa-sovrano mentre questi andava in Laterano per prendere possesso della basilica. Non si deve sottovalutare il peso dei ricordi e delle immagini dello Stato pontificio nella coscienza degli ebrei romani, discriminati per secoli e rinchiusi nel ghetto.

L’incontro con il papa fu nuovo nelle forme e nella sostanza. Giovanni XXIII, il 17 marzo 1962, si era fermato innanzi alla Sinagoga, dopo aver visitato lo storico mons. Giuseppe De Luca all’ospedale dell’Isola Tiberina e mons. Giacomo Testa, suo amico, in una clinica romana. Il papa, passando sul lungotevere, aveva visto gli ebrei che uscivano dalla Sinagoga dopo la preghiera del Sabato; spontaneamente aveva fatto fermare il corteo di macchine. Chiese chi fossero e, alla risposta che si trattava degli ebrei, li benedisse.

Racconta Toaff: gli ebrei, “dopo un momento comprensibile di smarrimento, lo avevano circondato ed applaudito entusiasticamente”. Ed aggiunge: “Era infatti la prima volta nella storia che un papa benediceva gli ebrei, ed era forse quello il primo vero gesto di riconciliazione”. Questo gesto colpì il rabbino capo e la Comunità. Qui si colloca un’iniziativa che dice molto del carattere umano di Toaff e del suo modo diretto e sincero di impostare i rapporti. Quando papa Giovanni era agonizzante, lui stesso si recò con alcuni ebrei in piazza San Pietro, “per ricambiare, come potevo, -nota- quella indimenticabile benedizione”. Del resto papa Roncalli aveva mostrato una sensibilità profonda all’ebraismo e agli ebrei, come si vede dalla vicenda della preghiera del Venerdì Santo Pro perfidis judeis. Una volta eletto papa, Giovanni XXIII aveva voluto ricevere personalmente l’ambasciatore d’Israele, accreditato presso la Repubblica Italiana (che aveva conosciuto durante il suo servizio diplomatico a Parigi), nonostante non esistessero relazioni tra Israele e la Santa Sede, e i diplomatici vaticani sconsigliassero l’incontro con un rappresentante ufficiale israeliano.

Toaff, come è noto, è stato protagonista del primo vero incontro tra il papa e la Comunità ebraica romana, che si è realizzato nel 1986. Nel 1981, durante una visita di papa Wojtyla a San Carlo ai Catinari, avviene il primo incontro personale tra il rabbino e il papa. Siamo nel 1981. Attraverso mons. Mejia, argentino, incarico dei rapporti con l’ebraismo, papa Wojtyla fece sapere il suo desiderio di vedere il rabbino. Bisogna comprendere quale fosse la mentalità di Karol Wojtyla, amico degli ebrei fin dalla natia Wadowice, il quale da arcivescovo di Cracovia aveva visitato la Sinagoga della città, proprio in un momento di forte crescita dell’antisemitismo di Stato in Polonia.

Per Giovanni Paolo II, il rapporto diretto tra il vescovo cattolico della città e gli ebrei era naturale. Non era così a Roma. La storia aveva creato una distanza, che non era stata ancora colmata. Infatti Toaff, prima che avvenisse l’incontro con Giovanni Paolo II, chiese che ci fosse da parte del papa un’espressione di rammarico per le condizioni degli ebrei prima del 1870. Il “volto” del papa restava, nonostante i cent’anni trascorsi, in parte quello dell’antico sovrano. Ma per Giovanni Paolo II non esisteva il problema di difendere la politica dei suoi predecessori; c’era invece l’urgenza (che egli sentiva in modo profondissimo) di stabilire una fraternità tra cattolici e ebrei, proprio nella città di cui egli era vescovo.

L’incontro fu positivo e cordiale, come Toaff ha narrato. Nacque un’amicizia tra il rabbino e il papa, che talvolta mi ha parlato di lui con simpatia personale. In questo quadro si colloca la “storica” visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma nel 1986, che aprì una nuova pagina nei rapporti tra ebrei e cattolici non solo a Roma. Sono vicende che Toaff ha narrato e che altri approfondiscono in questo stesso volume. L’episodio suscitò un rigurgito di antigiudaismo cattolico, tanto che sul Colosseo fu appeso uno striscione su cui si leggeva: “Oggi il vicario di Cristo va ad incontrare Caifa”. Non si tratta solo di espressioni ridicole, ma anche di segni della persistenza di stereotipi che appaiono quasi intramontabili.

Ben diverso era il sentire di papa Wojtyla, molto amato dagli ebrei e popolare nei loro ambienti. Ma anche un papa che ha molto amato gli ebrei, sentendo con essi un legame profondo e vitale. Molti sono rimasti sorpresi del fatto che Giovanni Paolo II, nel suo testamento, non ricordi nessuno esplicitamente se non il suo segretario personale e collaboratore a Cracovia e Roma, don Stanislao Diszwiz, e il rabbino capo di Roma. Il papa –a mio avviso- ricorda Toaff nel testamento non solo per il rapporto amichevole con lui; ma in questa memoria c’è anche un valore simbolico, quello del vescovo di Roma che è in rapporti di fraternità con il rabbino della sua città episcopale.

Significativamente Elio Toaff ha incontrato anche Benedetto XVI, durante la sua visita al Tempio maggiore nel gennaio 2010. Il rabbino, che ha alcuni problemi di salute connessi all’età, è sceso dalla sua casa su Via Catalana, a fianco della sinagoga, per salutare che il papa che passava. Questi gli è andato incontro e si sono salutati cordialmente. La figura del rabbino capo emerito continua a rappresentare, per l’opinione pubblica e per i cattolici, l’uomo che ha sofferto il dramma della guerra, ma anche il lottatore e un grande testimone di umanesimo ebraico. In questo senso il saluto di Benedetto XVI ha avuto un valore simbolico e umano di riconoscimento nei confronti di questo rilevante leader religioso italiano.

Un’amicizia creativa 

Ho conosciuto il rabbino Toaff personalmente alla fine degli anni Settanta, prima dei passi compiuti nell’incontro tra Wojtyla e Toaff, che ho sopra ricordato. Erano anni non semplici per l’ebraismo romano. Ho ancora in mente una conversazione con Toaff nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Trastevere e soprattutto una battuta, detta con il suo consueto umorismo: “io poi mi fido di Dio e di pochi altri”. Sulle sue labbra ritornavano le umiliazioni subite durante il fascismo come ebreo, i ricordi dolorosi della guerra, che poi ha narrato nel suo libro Perfidi giudei, fratelli maggiori del 1987. Ricordare per lui era un dovere, ma lo faceva sempre con un misto di ironia e di sofferenza, che costituiscono un tratto della sua personalità.

Dalle prime conversazioni con Toaff è nata un’amicizia che dura fino ad oggi. Infatti la carismatica personalità di Toaff è capace di realizzare un’amicizia personale, franca e fiduciosa. Si è sviluppato un itinerario di collaborazione, impostato sulla cifra di una profonda amicizia, che non solo ha coinvolto chi scrive, ma anche mons. Vincenzo Paglia, allora parroco di Santa Maria in Tastevere e consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, oggi vescovo di Terni, e mons. Ambrogio Spreafico, studioso della Bibbia e dell’ebraismo, oggi vescovo di Frosinone, oltre a tanti altri, anzi complessivamente tutta la Comunità di Sant’Egidio.

Toaff è un grande amico della Comunità di Sant’Egidio. Ha partecipato a incontri della Comunità, ha parlato della Bibbia e della fede d’Israele, mentre è stato accanto alla Comunità nelle manifestazioni contro l’antisemitismo e contro il razzismo che, in quegli anni, cominciava a manifestarsi nei confronti degli immigrati stranieri e dei rom, specie nei quartieri periferici di Roma. L'amicizia con Toaff è stata anche una porta per la vicinanza a Israele. Lo ricordo presente nel giardino di Sant'Egidio a poco più di un anno dall'inizio delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele quando, con l'Ambasciatore isrialiano Hadas, piantammo un ulivo proveniente da Gerusalemme, dono del KKL,a memoria di questo evento così significativo.

Sant’Egidio ha sentito in Elio Toaff un testimone di umanesimo ebraico, con la sua capacità di andare a fondo nel pensiero ebraico e nelle radici bibliche, ma anche di confrontarsi con il mondo contemporaneo in modo molto realista. Nel 1993, parlando a un incontro sul problema del razzismo e dell’antisemitismo, Toaff ha detto: “I rabbini si sono domandati di che colore fosse Adamo quando Dio l’ha creato. La Bibbia dice che Adamo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Ma noi sappiamo che Dio non ha un’immagine, che vuol dire allora questo fatto? L’immagine di Dio l’ha creato uno, il genere umano è uno, non ci sono bianchi, neri, gialli.”

Cosciente dell’unità radicale del genere umano, il rabbino capo di Roma si è interrogato sui fatti di razzismo e intolleranza, di cui è stato testimone. Allo stesso modo di Sant’Egidio, egli ha sempre sentito la necessità di rilevarli, evitando di sottovalutare l’accaduto come episodi marginali, ragazzate, frutto dell’azione di pochi. Si deve puntare a una qualità alta della convivenza umana, che si ispiri a un umanesimo vissuto. La storia, non solo antica ma recente, dell’ebraismo rendeva Toaff sensibile all’intolleranza, al disprezzo delle minoranze o alla loro emarginazione. E’ stato a Roma un testimone attento ai diritti e alla libertà di tutti, particolarmente dei gruppi più deboli e minoritari. In un convegno con la Comunità di Sant’Egidio, il rabbino capo di Roma si chiedeva: “Potrebbe esistere l’intolleranza se ognuno vedesse nel suo vicino l’immagine di Dio? Credi di no, ci sarebbe piuttosto una fratellanza universale che farebbe in modo… che al posto dell’intolleranza e dell’odio si sostituisca l’armonia e l’amore. Ora, d’altra parte, sempre la Bibbia ci insegna: non opprimere lo straniero, ricordati che tu sai qual è lo stato d’animo dello straniero perché tu stesso fosti straniero in terra d’Egitto. Non c’è affermazione più bella di questa.”

Nel 1982, di fronte alle persistenti manifestazioni di antisemitismo a vari livelli, la Comunità di Sant’Egidio aveva organizzato una serie di incontri e conferenze nelle scuole superiori di Roma proprio sul tema dell’antisemitismo. Al di là delle dichiarazioni di solidarietà, la Comunità sentiva la necessità che l’ebraismo romano non fosse lasciato solo e che esistesse un tessuto di simpatia quotidiana, proprio nei momenti difficili. In tanti incontri e conferenze, la Comunità aveva sperimentato la sorprendente persistenza di stereotipi antisemiti tra i giovani. C’era l’esigenza che la memoria della Shoah (con il triste corteggio ideologico che l’aveva preparata e preceduta) fosse recepita dalle giovani generazioni e non fosse solamente confinata in alcune manifestazioni ufficiali, che potevano rischiare la ritualità.

La tragedia di Sabra e Chatila, i campi palestinesi alle porte di Beirut, dove erano avvenute nel 1982 stragi di palestinesi da parte delle milizie libanesi cristiane con l’assenso delle truppe israeliane, aveva avuto una ricaduta sull’opinione pubblica in senso antisemita. Non è che un esempio di un clima filo palestinese, che si risolveva nell’ostilità a Israele e agli ebrei. C’era qualcosa di molto preoccupante nell’opinione pubblica dell’inizio degli anni Ottanta, una miscela di progressismo filopalestinese e filoarabo, retaggi di vecchio antisemitismo, contestazione radicale del diritto all’esistenza d’Israele, antipatia verso gli ebrei.

Nel giugno 1982, durante una manifestazione delle tre centrali sindacali a Roma, in un corteo di cinquecentomila scioperanti, si verificò un episodio incredibile: tra slogan antiebraici e antisraeliani, fu lasciata una bara, accanto al Tempio Maggiore, sotto le lapidi che ricordavano i martiri ebrei alle Fosse Ardeatine e nella Resistenza. Fu un fatto gravissimo, indice di una situazione preoccupante. Quelle lapidi non erano più una memoria ammonitrice. Il giorno della festa delle Capanne, nel 1982, avvenne un fatto ancora più grave: una bomba palestinese fu gettata di fronte al Tempio. Parecchi furono feriti e morì un bambino, Stefano Taché. Era il tempo del “vento dell’odio”, come lo chiama Toaff.

Bisognava lavorare per fermare quel processo di degrado, rafforzare la memoria, suscitare simpatia, evitare che gli ebrei fossero isolati. La Comunità di Sant’Egidio pensò che fosse necessario riprendere il filo della memoria della Shoah, di fronte a tanta dimenticanza e a pericolosi scivolamenti dell’opinione pubblica. Nel giugno 1983, dopo un colloquio con il rabbino Toaff, mons. Paglia gli inviava un appunto in cui si ricordavano le assemblee tenute dalla Comunità di Sant’Egidio nella scuole sulla Shoah e si proponeva una marcia “per ricordare il 16 ottobre. Deportazione degli ebrei di Roma”: “la manifestazione –si precisava- avrebbe un carattere religioso e di memoria umana della deportazione degli ebrei di Roma”.

Era l’inizio di quella manifestazione per il 16 ottobre, che si sarebbe ripetuta ogni anno da Trastevere, rione dove erano stati raccolti gli ebrei romani prima della deportazione, sino al Portico d’Ottavia, dove sostavano i camion tedeschi per la razzia nell’antico quartiere ebraico. Toaff, finché ha potuto, ha sempre partecipato a questa manifestazione, prendendo la parola in essa e dando testimonianza della sua adesione e del suo interesse: “io verrò finché ho vita, –disse una delle ultime volte che poté partecipare- perché sento che nel calore di questa gente e nel modo con cui si fa questa memoria c’è una sicura garanzia per il futuro del nostro paese”. Nel 2004, al Portico di Ottavia, luogo dove furono imbarcati sui camion tedeschi gli ebrei razziati nell’antico quartiere ebraico, Elio Toaff disse parole affettuose nei confronti dei promotori dell’iniziativa, ricostruendone la genesi:

“Il sedici ottobre è stata una data tragica per gli ebrei di Roma e come tante date si poteva pensare che sarebbe diventata pian piano più lontana e meno appariscente. Invece no. La Comunità di Sant’Egidio, ogni anno, viene qua con centinaia e centinaia di persone, per dimostrare la sua partecipazione a quello che fu il lutto della Comunità Ebraica romana. In dieci anni che viene qua, noi abbiamo sentito come questa Comunità di Sant’Egidio sia così umana, così sensibile a quello che sono le tragedie di questo periodo che è trascorso tra l’indifferenza generale. Sedici ottobre? Chi se ne ricordava? Chi è che ha partecipato al ricordo della strage che veniva fatta del popolo ebraico in questa città? Nessuno, c’è soltanto la Comunità di Sant’Egidio che ha mantenuto il ricordo e che ogni anno desidera continuare a ricordare qui insieme a tutti noi…”

La manifestazione del 16 ottobre, che ormai ha alle sue spalle molte edizioni, ogni anno ricorda la grande razzia degli ebrei romani da parte dei tedeschi nel 1943. E’ divenuta un luogo della memoria per Roma, capace di coinvolgere ebrei e cattolici, cittadini romani, giovani, ma anche immigrati di tutte le religioni (tra cui musulmani). Essere romani è, per tutti, anche per i nuovi arrivati, entrare in una storia e custodire il ricordo di quella terribile ferita inferta alla storia di Roma contemporanea, quando tanti suoi figli furono deportati, perché colpevoli di essere ebrei. Così la partecipazione di molti immigrati e di giovani rappresenta un aspetto qualificante di questo luogo della memoria del 16 ottobre 1943.

Questa iniziativa che, con gli anni vede accrescere il numero dei partecipanti, é nata dall’amicizia di Toaff con Sant’Egidio. E’ divenuta una manifestazione civica della memoria: non ha niente di rituale o cerimoniale, ma rappresenta un momento vivo in cui i romani ripercorrono un tratto drammatico della loro vicenda. Le varie migliaia di persone che vi partecipano, mentre si assottiglia il numero dei testimoni, si fa carico della responsabilità di ricordare e di trasmettere alle giovani generazioni. Nel 2000, al Portico d’Ottavia Toaff disse:

“Io credo che questa commemorazione, che viene fatta ogni anno, ci deve portare soprattutto a riflettere fino a che punto può decadere l’animo umano, fino a che punto si può scendere nella bassezza, fino ad arrivare a perdere la ragione. Perché io non posso pensare che fossero uomini pensanti quelli che hanno preso i bambini e li hanno uccisi, come se fossero degli agnelli da portare al macello.”

L’oratoria di Toaff è semplice, diretta, nutrita della pagina della Bibbia e di un senso acuto, talvolta doloroso, della realtà. Sempre nel 2000 afferma: “vedo che c’è ancora più gente che negli anni passati. Viene da chiedersi perché, ancora oggi, c’è tanta gente a questa manifestazione del 16 ottobre, nonostante il passare degli anni e l’impallidire dei ricordi. La memoria della Shoah si rivela, sempre più, non come un fatto accessorio, ma uno dei fondamenti della nostra civiltà occidentale, libera, democratica, pluralista. E’ divenuta una memoria che parla al presente e al futuro. Ricordo che Settimia Spizzichino, reduce dal lager tedesco e lei stessa partecipe di tante manifestazioni del 16 ottobre e scomparsa da qualche anno, scriveva: “Per tutti gli anni che ci hanno rubato, che hanno rubato a milioni di uomini, donne, bambini –specialmente bambini!- che sono rimasti nei Campi. Quanti anni –decine, migliaia, milioni avrebbero ancora da vivere? Quanti anni di vita sono andati in fumo nei forni crematori dei Lager, nel più mostruoso furto della storia?”

Settimia Spizzichino si chiedeva alla fine, ponendosi il problema degli anziani testimoni di quegli eventi: “E che accadrà quando noi non ci saremo più? Si perderà il ricordo di quell’infamia?”. La risposta a questa domanda –che è la domanda della generazione che ha sofferto la Shoah e gli orrori della seconda guerra mondiale- si trova oggi nella continuità di una memoria partecipata, che è entrata a far parte delle corde sensibili della stessa città, grazie alla collaborazione tra la Comunità ebraica e la Comunità di Sant’Egidio, grazie all’opera del rabbino Toaff. Se quel ricordo andasse perso, con esso andrebbe persa tanta umanità del nostro mondo, della nostra civiltà, tanta sicurezza di vita per noi tutti.

Il dialogo tra ebrei e cristiani non è qualcosa di accademico. La storia tra Sant’Egidio e Toaff è stata un’amicizia profonda, creativa, attenta all’evolversi dalla situazione, nutrita di solidarietà e simpatia, vissuta nel quadro di una storia che ha conosciuto momenti tumultuosi e che ha visto gli uni e gli altri affrontarli stando vicino. Toaff ha avuto il gusto di favorire l’incontro tra comunità vere, fatte di gente diversa, che si ritrovavano insieme. Il rabbino, nel 2001, parlando alla manifestazione di memoria del 16 ottobre, dice: “Oggi, grazie alla Comunità di Sant’Egidio, noi vediamo arrivare qui centinaia e centinaia di persone. A quale scopo? A dimostrare alla Comunità ebraica che sentono che gli ebrei sono parte integrante della popolazione della nostra città. Noi sappiamo che gli ebrei sono forse il gruppo della popolazione più antico che vive in questa città. Noi sappiamo che fin dai tempi più antichi… il popolo ebraico era qui e ha sempre partecipato alla sorte di questa città.”

La storia dell’amicizia tra Toaff e Sant’Egidio è stata quella di una prossimità fatta di solidarietà e di simpatia, che ha mostrato come la parola “dialogo” prenda carne in un rapporto che vibra le diverse tonalità personali, fraterne, sociali, religiose ed anche politiche in senso largo. Si è troppo insistito su un dialogo accademico, quasi in una forma di astrattismo teorico-religioso, senza considerare che il dialogo è concreta amicizia tra uomini e donne, tra comunità, coltivando la stima per il patrimonio umano e religioso, rappresentato dall’altro. Soprattutto il dialogo è convinzione che non si può vivere senza l’altro. C’è una bellezza dell’alterità, quando essa è irriducibile a sé. L’alteritià ebraica rappresenta per i cristiani qualcosa di prezioso, che tocca le radici della stessa fede. Ma non può essere solo un postulato teologico. Visione religiosa e esperienza appassionata del presente fanno maturare questo gusto di essere insieme, pur essendo differenti. Anzi l’alterità è una grande ricchezza in un mondo tentato, in vari modi e in diverse stagioni, dall’appiattimento omologante. Ieri quello di un regime autoritario. Oggi quello dell’individualismo conformista.

Troppo spesso, a Roma, si è creduto che si potesse vivere senza l’altro. Anche tra i cristiani. Invece quando l’”altro” è stato negato e isolato, questo ha significato tempi brutti e negazione degli stessi valori di cui si è portatori. Il 16 ottobre 1943 è il punto di arrivo di un processo di isolamento della Comunità ebraica con le leggi razziste del 1938, che sono state applicate nel quadro di una consistente indifferenza generale da parte dei romani, storditi e spaventati da un regime autoritario.

Così, parlando al Tempio Maggiore per gli 85 anni di Toaff, dicevo, dopo aver ringraziato per l’onore che mi era fatto, invitandomi a prendere la parola: “Credo che questo privilegio e questa gioia si debbano al legame stretto tra la Comunità ebraica e quella di Sant’Egidio che si è sviluppato in più di vent’anni, belli, ricchi, difficili, dolorosi. E’ un legame rinsaldato dalla memoria del 16 ottobre 1943, che ogni anno celebriamo con una marcia della memoria da Trastevere al Portico d’Ottavia: una memoria ammonitrice, perché mai più si arrivi al punto che gli ebrei siano separati dagli altri romani dalle leggi razziste, mai più si ripetano a Roma quei tragici avvenimenti. Un legame fatto di amicizia sincera anche nel presidiare gli angoli della vita di Roma, perché non circolino nuovamente i veleni dell’odio; un legame fatto della convinzione che la Comunità ebraica è parte decisiva dell’anima e dell’identità di questa nostra Roma e di quella di domani.


Commenti

  1. Veramente mio nonno si chiamava Israele Eugenio Zolli. Come lui, ho cercato e cerco di salvare vite, in silenzio, come avevo promesso a Rav Toaff nel 1999, alla morte di mia madre. Spesso va male, come nel caso di Jerry Masslo, ma ci provo. Ora posso almeno ricordarlo vivo. Arrivederci. Arrivederci, Rav Toaff, z.l., שלום

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